Photo Roma
Links   E-mail  
Search


Search for... (in italian)


City


Photos
   Anagni
   Arezzo
   Assisi
   Avila
   Bologna
   Bolzano
   Bomarzo
   Brescia
   Bressanone
   Cadice
   Cordova
   Cremona
   Desenzano Garda
   El Escorial
   Ferrara
   Figline Valdarno
   Firenze
   Fossanova
   Genova
   Granada
   Lucca
   Madrid
   Mancia
   Mantova
   Milano
   Modena
   Ortisei
   Orvieto
   Padova
   Parma
   Perugia
   Piacenza
   Pisa
   Pompei
   Ravenna
   Reggio Emilia
   Roma
   Salamanca
   San Gimignano
   San Giovanni Vd
   Sansepolcro
   Segovia
   Siena
   Siviglia
   Spoleto
   Toledo
   Trento
   Treviso
   Trieste
   Udine
   Valladolid
   Valle de los caidos
   Venezia
   Verona
   Vicenza
   Vienna


Extras
   Madonnelle romane
   Ponti romani
   Statue parlanti

   Glossario
   Storia di Roma
   Il Rinascimento



 
Il Rinascimento Back
 

Lo stile gotico: i fondamenti tecnici

L’architettura gotica nasce da una tecnica costruttiva sfociata nell’elaborazione della volta ogivale. I caratteri di questo elemento ne determinano anche i meriti artistici: l’impiego dell’arco a sesto acuto - che porta di più dell’arco a tutto sesto perché il peso si scarica su determinati punti rinforzati (contrafforti, archi rampanti) - fa si che la parete interposta possa ospitare grandi aperture che danno luce e consentono di introdurre le vetrate policrome, mentre lo slancio verticale invita ad accentuare l’altezza dei volumi interni. La tendenza ad alleggerire le pareti e a esaltare la verticalità si è accentuata a tal punto da provocare veri e propri disastri che, se avevano indotto a maggior prudenza, non avevano tuttavia rimesso in discussione i principi architettonici a fondamento del gotico. Lo stile, quindi, era funzione di una tecnica che aveva dato origine a un gusto e introdotto nuovi criteri estetici.

Il ritorno allo stile

Il Rinascimento ripercorre questa via in senso inverso. Lo stile non dipende più dalle possibilità tecniche, ma appare fondato su principi estetici di natura superiore, su concetti astratti (la simmetria, la proporzione) e sull’uso di un linguaggio rigorosamente regolato nel vocabolario e nella grammatica: il sistema degli ordini. Identificando la bellezza col rispetto assoluto di tali principi, e soprattutto proscrivendo l’arco acuto a vantaggio dell’arco a tutto sesto - considerato di linea più pura - e dell’architrave orizzontale - il solo consentito tra le colonne -, il Rinascimento rinuncia ai virtuosismi tecnici dei maestri muratori medievali. Si ritorna alla volta a botte, a una concezione costruttiva statica ove le murature sono sollecitate solo sulle verticali, senza distribuzione di carichi, a una affermazione della massa muraria come valore in sé. Si vieta ogni arditezza, come l’eccessiva verticalizzazione dei volumi, l’alleggerimento della pareti e l’apertura alla luce: la prima a farne le spese è l’arte vetraria.

La condanna del gotico

In questo senso l’architettura rinascimentale rappresenta un vero regresso; eppure, presa com’è a condannare senza appello lo stile del tardo Medioevo, pare non accorgersene. Lo stesso termine gotico viene usato per la prima volta in senso spregiativo, per definire un’architettura portata in Italia da maestranze tedesche. Spietato il Vasari, che si fa interprete dei pregiudizi largamente condivisi tra gli artisti italiani: “i lavori tedeschi... son fuggiti... come mostruosi e barbari: mancando ogni lor cosa di ordine... avendo fatto nelle lor fabbriche, che son tante che hanno ammorbato il mondo, le porte ornate di colonne sottili... le quali non possono aver forza a reggere il peso... E così... facevano una maledizione di tabernacolini l’un sopra l’altro... e spesso per mettere cosa sopra cosa... che la fine di una porta toccava loro il tetto. Questa maniera fu trovata da goti... che girarono le volte con quarti acuti, e riempirono tutta Italia con questa maledizione di fabbriche...”. Il rimedio? Andare a lezione dagli Antichi.

Studiare i monumenti d’età classica: l’arte romana

Il fatto che il movimento del ritorno all’antico nasca in una città come Firenze, priva di vestigia classiche, può sembrare un paradosso, ma se non altro serve a ricordare che l’arte non dipende dall’opportunità. Dapprima Brunelleschi e gli altri fiorentini, che propugnano l’idea di una rinascita, studiano alcuni monumenti romanici in cui colgono, non a torto, un’ultima eco dei principi e delle forme dell’arte antica: la basilica di San Miniato al Monte, con la sua armonica facciata, ma soprattutto il tanto amato Battistero, il “bel San Giovanni” di dantesca memoria, un grande edificio centrico ottagonale di origine paleocristiana (V secolo) che fino al settecento si considererà un antico tempio di Marte. Nel Battistero le membrature di un architrave si piegano ad angolo retto, e si prolungano in verticale. Proprio in base a questo modello Francesco della Luna modificherà il progetto brunelleschiano per la facciata dell’Ospedale degli Innocenti. Lo stesso Brunelleschi, però, battuto dal Ghiberti in occasione del concorso del 1401 per la porta nord del Battistero, si reca a Roma con Donatello per studiare i monumenti secondo un costume che diverrà imperativo nella formazione degli architetti.

Le antichità di Roma

In effetti Roma conservava ancora numerosi monumenti che sarebbero assurti a modello della nuova architettura. Primo fra tutti il Pantheon, che, unico non ridotto ad un rudere perché trasformato in chiesa (Santa Maria ad Martyres), offre un perfetto esempio di pronao antico - un porticato colossale culminante in un frontone triangolare - e di impianto centrale ideale - una rotonda sormontata da una cupola. Il Colosseo, il Septizonio (dal latino septem, sette, e dal greco zòne, cintura: un edificio di sette piani che si ergeva ai margini del Palatino) e, in scala minore, il teatro Marcello forniscono all’architettura civile modelli di sovrapposizione degli ordini. Gli ordini vengono studiati anche sulle vestigia dei templi del Foro, ma più per l’ornato dei capitelli e per la trabeazione che per le proporzioni, perché la base delle colonne a quei tempi è ancora interrata. Gli archi di Settimio Severo e di Tito possono ispirare porte di città e ingressi monumentali. Le terme di Diocleziano e di Caracalla, riportate alla luce nel corso del Cinquecento, e anche la Basilica di Massenzio nel Foro svelano tutta la perizia di progetti che combinano ambienti di forma diversa in mirabili simmetrie, e volumi colossali culminanti in volte poderose. Le basiliche di Costantino offrono un esempio memorabile della nobiltà del tipo basilicale con la bellezza dei lunghi colonnati della navata e dell’atrio. Infine, la campagna romana e la via Appia pullulano di tombe, tutte varianti della pianta centrale. Così l’Urbe, che nel Quattrocento inizia i grandi toscani convertiti al Rinascimento, come Brunelleschi, Francesco dal Borgo e Giuliano da Sangallo, diviene la meta di un nuovo pellegrinaggio per architetti sia italiani (da Bramante a Palladio) sia stranieri (dallo spagnolo Herrera al francese Delorme).

L’architettura del Rinascimento, come è implicito nel termine, è quindi un deliberato ripristino delle idee e della prassi degli architetti dell’antichità classica e si può effettivamente affermare che l’architettura rinascimentale è romana, essendo rimasta quasi sconosciuta all’Europa occidentale fino al Settecento l’architettura greca classica.

L’effetto prodotto sia da un edificio romano che da un edificio rinascimentale dipende da sottilissimi adattamenti di semplicissime masse. Si basano entrambi sul sistema modulare della proporzione. Il modulo è fissato nel semidiametro della colonna alla sua base e l’insieme di un edificio classico dipende da questa proporzione iniziale. Talvolta è il diametro ad essere fissato come criterio di proporzionalità: in entrambi i casi non sono le dimensioni reali, ma la scala ad avere importanza. Pertanto, se un tempio è basato su un colonnato di colonne corinzie e ogni colonna ha un diametro di 2 piedi, il modulo sarà 1 piede, l’altezza della colonna sarà approssimativamente di 18-21 piedi (poiché è lecita una certa variazione), e l’altezza della colonna e del capitello determinerà l’altezza della trabeazione, e quindi dell’edificio nel suo complesso. In maniera analoga, la lunghezza e la larghezza dell’edificio saranno determinate dal modulo, poiché esso fissa non soltanto la dimensione della colonna, ma anche - di nuovo entro certi limiti - la quantità di spazio fra ogni colonna. Da ciò consegue che ogni particolare di un edificio classico è in diretta relazione con ogni altro particolare, e in pratica l’intero edificio è proporzionato al corpo umano, poiché nell’antichità la colonna veniva concepita come simile al corpo umano e spesso a esso proporzionata nell’altezza.

Oltre alla relazione fra le parti, l’architetto classico ricercava la simmetria e l’armonia; quindi, progettando una parete nuda con tre finestre, egli avrebbe avuto cura che l’altezza delle finestre fosse proporzionata alla sua larghezza, che i vani delle finestre fossero aperti simmetricamente e che la forma rettangolare della finestra avesse una relazione soddisfacente con la forma della parete nel suo complesso. E’ perciò evidente la necessità di una certa pratica per poter apprezzare la molteplicità, nell’unità, di questo tipo di architettura ed è anche ovvio che, a un occhio sensibile, una cornice più larga di soli dieci centimetri può essere disarmonica quanto una nota sbagliata in un brano musicale.

Nell’Ottocento questo tipo di architettura fu avvolto in una fitta nube di condanna morale. Per Pugin, Ruskin e molti altri erano cristiane le chiese costruite in stile gotico, mentre gli stili classicisti non erano altro che tentativi di ripristinare forme pagane. Le condanne più infervorate vennero da Ruskin, che nelle Pietre di Venezia raggiunse il delirio:

Innanzitutto eliminiamo tutto ciò che concerne l’architettura greca, romana o rinascimentale, in teoria o in sostanza... E’ meschino, innaturale, improduttivo, non fruibile, empio. Pagano all’origine, fiero e profano nella sua rinascita, paralizzato nella sua vecchiaia... un’architettura inventata, come pare, per trasformare in plagiari i propri architetti, in schiavi i propri operai, e in sibariti i propri abitanti; un’architettura nella quale l’intelletto è ozioso, l’inventiva impossibile, ma nella quale ogni lusso è gratificato, ogni insolenza rafforzata...

Geoffrey Scott, nel suo classico The architecture of Humanism, apparso nel 1914, mostrò l’insensatezza del voler guardare l’architettura attraverso lenti moralistiche. Purtroppo lo stesso Scott, pur demolendo elegantemente i vari sofismi che impedivano di guardare all’architettura rinascimentale con occhi sgombri da pregiudizi, cadeva nella trappola che si cela permanentemente dietro al termine umanesimo. Nel Quattrocento per umanesimo si intendeva una cosa ed una cosa sola: lo studio della letteratura greca e latina sia come lingua che come letteratura. In esso non fu mai implicita una particolare posizione teologica; anzi, sotto questo profilo, gli umanisti erano diversi gli uni dagli altri quanto qualsiasi gruppo di persone. Tuttavia, gli umanisti italiani condivisero tutti una grande passione: l’anelito nostalgico per la gloria dell’Italia sotto i romani e per lo splendore della lingua latina. Gli artisti che con loro ebbero rapporti finirono col provare le stesse emozioni per l’arte antica che gli scrittori provarono per la letteratura latina; eppure un attimo di riflessione basterà a mostrarci che né l’arte antica né la letteratura romana sono omogenee, e le imitazioni che se ne fecero durante il Rinascimento variano altrettanto profondamente. Vi è un brano famoso della Lettera a Leone X sulla pianta di Roma antica, del 1519, che descrive chiaramente come gli uomini del Cinquecento pur venerando la Roma antica si sentissero in grado di emularla:

...Non ebbe adunche, padre Santo, esser tra gli ultimi pensieri di Vostra Santità lo haver cura che quello poco che resta di questa antica madre della gloria et nome Italiano, per testimonio di quelli animi divini, che pur talhor con la memoria loro excitano et destano alle virtù li spiriti, che hoggi dì sono tra noi, non sia extirpato in tutto... ma più presto cerchi Vostra Santità, lassando vivo el paragone de li antichi, aguagliarli et superarli...
Perché di tre maniere di edificii solamente si ritrovano in Roma, delle quali la una è di que’ buoni antichi, che durano dalli primi imparatori sino al tempo che Roma fu ruinata et guasta dalli Gotti et da altri barbari... Che avegna che a dì nostri l’architectura sia molto svegliata et veduta assai proxima alla maniera delli antichi, come si vede per molte belle opere di Bramante, niente di meno li ornamenti non sono di materia tanto pretiosa, come li antichi...

Se paragoniamo Palazzo Rucellai, eretto intorno al 1450, con la casa che Giulio Romano si costruì a Mantova cento anni dopo, appare evidente che i due edifici hanno poco in comune; analoghi paragoni possono essere fatti tra chiese a pianta centrale come la Rotonda degli Angeli di Brunelleschi e il Tempietto del Bramante, o chiese del tipo più tradizionale a croce latina come quella del S. Spirito di Brunelleschi e quella del Gesù di Vignola. Come per gli scrittori contemporanei che prendevano a modello il latino ciceroniano, il denominatore comune è, naturalmente, l’adesione ai principi basilari dell’architettura romana; ma in entrambi i casi l’eredità del cristianesimo era necessariamente destinata a dare all’artista una visione profondamente diversa. In altri termini, l’architettura del Rinascimento ha scopi differenti, radici differenti, e anche una tecnica costruttiva differente. La costruzione della cupola del Duomo di Firenze non sarebbe stata possibile senza le tecniche murarie gotiche, ma non bisogna mai dimenticare che il desiderio di emulare gli edifici romani nasceva soprattutto dalla loro sorprendente e palese superiorità rispetto alle opere di epoche successive. Anche oggi che siamo abituati ad edifici enormi e alle imprese tecniche rese possibili dall’acciaio e dal cemento armato, la basilica di Costantino (Massenzio) e il Pantheon ci incutono ancora una certa soggezione. All’inizio del Quattrocento, Roma consisteva di enormi ruderi coperti di vegetazione e di malinconia nella loro decadenza, mentre piccoli, decrepiti tuguri rappresentavano tutta l’attività edilizia civile di un millennio. C’è un lungo lamento dell’umanista Poggio scritto intorno al 1431 sulle condizioni di Roma in quell’epoca:

Questo colle capitolino, un tempo capo e centro dell’Impero romano e cittadella del mondo intero, dinanzi al quale re e principi tremavano, questo colle sul quale salirono in trionfo tanti imperatori, un tempo adorno dei doni e delle spoglie di tanti grandi popoli, cinosura di tutto il mondo, ora giace desolato e distrutto, così diverso dal suo antico stato, che i rampicanti hanno preso il posto dei banchi dei senatori ed il Campidoglio è diventato ricettacolo di letame e sozzura. Guarda il Palatino ed accusa la Fortuna che ha distrutto il palazzo costruito da Nerone, dopo l’incendio della città, con il bottino del mondo intero, splendidamente ornato con le ricchezze radunate nell’impero, la dimora che, abbellita con alberi, laghi, obelischi, arcate, statue gigantesche, anfiteatri di marmo variopinto, era ammirata da tutti coloro che la vedevano; tutto ciò è ora talmente in rovina che non rimane ombra che possa assomigliare ad altro che a un deserto.

Lo stesso sentimento fu espresso in maniera più incisiva dall’anonimo autore dell’epigramma Roma quanta fuit ipsa ruina docet, che Serlio adottò come motto per il suo libro sulle antichità di Roma (1540). Vitruvio, unico autore classico di cui ci sia pervenuto un trattato di architettura, era noto nel Medioevo, ma all’inizio del Quattrocento Poggio avrebbe riscoperto un manoscritto del trattato nel monastero svizzero di S. Gallo. E’, comunque, certamente vero che da allora il latino oscuro e tecnico di Vitruvio venne studiato con passione e gli architetti cominciarono a scrivere trattati basati più o meno liberamente sul suo. Alcune citazioni metteranno in chiara luce le loro concezioni su argomenti come la bellezza della proporzione, l’armonia da ricercare in un edificio, e il deliberato rifacimento di tipi classici. Vitruvio stesso con le sue definizioni diede l’esempio:

L’architettura si compone di Ordinazione... Disposizione... ed Euritmia, Simmetria, Decoro e Distribuzione (De Architectura, I, II, 1).

La Composizione delle fabbriche dipende dalla simmetria, le regole della quale debbono perciò essere ben note agli architetti. Nasce questa dalla proporzione... ed è una corrispondenza di misura fra una certa parte de’ membri di ciascuna opera e l’opera tutta: dalla quale corrispondenza dipende la simmetria. Quindi non può fabbrica alcuna dirsi ben composta, se non sia fatta con simmetria e proporzione, come l’anno le membra di un corpo umano ben formato... Debbono del pari le membra degli edifizii sacri avere corrispondenza di misure fra ciascuna parte e tutta l’intera grandezza... Se si situa un uomo supino colle mani e co’ piedi stesi, e fatto centro nell’umbilico si tiri col compasso un cerchio, questa linea toccherà le dita d’ambe le mani e piedi: e siccome si adatta il corpo alla figura rotonda, s’adatta anche alla quadrata: imperciocché se si prende la misura da’ piedi alla sommità della testa, e si confronti con quella delle braccia tese, si troverà eguale l’altezza alla larghezza, appunto com’è uno spazio quadrato (De Architectura, II, I, 1-3).

Ad ogni modo, senza stare a dilungarci, definiremo la bellezza come l’armonia tra tutte le membra, nell’unità di cui fan parte, fondata sopra una legge precisa, per modo che non si possa aggiungere o togliere o cambiare nulla se non in peggio... (Alberti, De re aedificatoria, VI, 2).

Le finestre dei templi devono essere di dimensioni modeste e in posizione bene elevata, si che attraverso di esse non si possa scorgere altro che il cielo, né i celebranti e gli oranti siano in alcun modo sviati dal pensiero della divinità... Nell’antichità, per questa ragione appunto, ci si limitava il più delle volte a un’unica apertura, la porta. (Alberti, De re aedificatoria, VII, 12).

Tre cose in ciascuna fabrica (come dice Vitruvio) deono considerarsi, senza lequali niuno edificio meriterà esser lodato; e queste sono, l’utile o commodità, la perpetuità, e la bellezza... La bellezza risulterà dalla bella forma e dalla corrispondenza del tutto alle parti, delle parti fra loro, e di quelle al tutto: conciosiaché gli edifici habbiano da parere un intiero e ben finito corpo: nel quale l’un membro all’altro convenga, e tutte le membra siano necessarie a quello che si vuol fare (Palladio, I Quattro Libri, I, 1).

I Tempii si fanno ritondi, quadrangolari, di sei, otto e più cantoni, i quali tutti finiscano nella capacità di un cerchio; a Croce, e di molte altre forme, e figure, secondo le varie inventioni de gli huomini... Ma le più belle, e più regolate forme, e dalle quali le altre ricevono le misure, sono la Ritonda e la quadrangolare; e però di queste due solamente parla Vitruvio...
Così leggiamo che gli Antichi nell’edificare i Tempii si ingegnarono di servare il Decoro, nel quale consiste una bellissima parte dell’Architettura. E però ancora noi, che non habbiamo i dei falsi, per servare il Decoro circa la forma de’ Tempii, eleggeremo la più perfetta, più eccellente; e conciosia che la Ritonda sia tale, perché sola tra tutte le figure è semplice, uniforme, eguale, forte, e capace, faremo i Tempii ritondi; a’ quali si conviene massimamente questa figura... attissima a dimostrare la Unità, la infinita Essenza, la Uniformità, e la Giustizia di Dio...[1]
Sono anco molto laudabili quelle Chiese, che sono fatte in forma di croce... perché... rappresentano a gli occhi de’ riguardanti quel legno, dal quale stete pendente la salute nostra. E di questa forma io ho fatto la chiesa di San Giorgio Maggiore in Venetia...
Tra tutti i colori niuno e, che si convenga più a i Tempii della bianchezza: conciosiaché la purità del colore e della vita sia sommamente grata a Dio. Ma se si dipingeranno, non vi staranno bene quelle pitture, che con il significato loro alienino l’animo dalla contemplatione delle cose Divine; perciò che non si dobbiamo ne i Tempii partire dalla gravità, e da quelle cose che vedute da noi rendano gli animi nostri più infiammati al Culto Divino e al bene operare (Palladio, I Quattro Libri, IV, 2).

Naturalmente era più facile ricreare edifici classici di tipo civile che i templi pagani dell’antichità, così inadeguati alle esigenze della liturgia cristiana, soprattutto per i loro significati devozionali. Così, per esempio, l'insula classica, o blocco di appartamenti, attraverso uno sviluppo organico culmina nel palazzo italiano, e in Italia lo spettacolo affascinante del passato che evolve nel presente si svolge con maggiore chiarezza che altrove. Si possono fare osservazioni analoghe in merito alle forme delle chiese, nella misura in cui si distinguono dai templi. In effetti, difficilmente gli architetti del Rinascimento hanno potuto credere di ripristinare forme romane, poiché i principali tipi di chiesa cristiana erano già stati fissati all’inizio del IV secolo sotto l’Imperatore Costantino, e per gli uomini del Quattrocento e del Cinquecento l’Impero Romano cristiano nel secolo tra l’editto di Milano (313) e il sacco di Roma a opera dei vandali (410) toccò uno dei momenti culminanti dell’arte classica. Per questo motivo non sarebbe mai potuto venire alla mente di Brunelleschi o di Bramante di considerare non cristiana una chiesa a pianta centrale; essi pensarono, anzi, che l’architettura gotica fosse un’architettura barbara. L’importazione delle idee gotiche in Italia fu lenta e tarda; furono soltanto le circostanze storiche a permettere che si verificasse e per lo meno in questo senso gli uomini del Rinascimento ebbero la consapevolezza di ritornare agli scopi e agli ideali dei loro progenitori quando cercarono di liberare il loro cammino dai rottami dei secoli barbarici per poter ripercorrere la via ampia e diritta della “buona maniera di costruire”. L’illustre studioso francese Emile Male lo ha espresso perfettamente in due frasi:

Così, il viaggiatore che dal Colosseo si dirigeva verso S. Pietro attraverso la Basilica Costantiniana ed il Pantheon, che visitava la Cappella Sistina e la più bella delle stanze di Raffaello, in una giornata, vedeva quanto di meglio Roma offriva. Allo stesso tempo, avrebbe imparato cos’era il Rinascimento: era l’Antichità nobilitata dalla fede cristiana.

BIBLIOGRAFIA:
Il Rinascimento dell’Architettura da Brunelleschi a Palladio - Betrand Jestaz - Universale Electa / Gallimard
L’Architettura del Rinascimento italiano - Peter Murray - Economica Laterza


[1]  L’idea della perfezione del cerchio in quanto riflesso della perfezione divina non fu inventata da Palladio; la troviamo più di un secolo prima negli scritti di Niccolò da Cusa: “In lui [...] il principio è tale che fine e principio sono una cosa sola [...] Tutto ciò deduciamo dal cerchio infinito, che, non avendo né principio, né fine, è eterno, infinitamente uno e infinito in capacità”. Cfr. P. Burke, The Renaissance, Londra 1964, pp. 74-4.